sabato 20 ottobre 2012

Di Rom, case, città nostra e altre cosucce


Leggevo mercoledì scorso l'articolo di Maurizio Spada: DALLA CASA BENE RIFUGIO ALLA CASA SOCIALE e già nelle prime righe mi imbatto in questa affermazione: "A parte i popoli migranti come i Rom tutti gli altri hanno bisogno di una casa:" e subito dopo "ora osserviamo che a questo bisogno fondamentale si risponde nei modi più disparati."

Iniziale caduta di braccia: i Rom rimangono, se non col nomadismo inscritto nel DNA, dei migranti, gente che non è destinata a stanziarsi e quindi di casa non ha bisogno. Possibilmente col solito equivoco: non siamo NOI i cattivi che non vogliamo concedergliela, sono LORO a non averne bisogno. Quindi, norme e diritti sono salvi. Ma che differenza può esserci tra un nomade e un migrante? Forse quel "popoli" iniziale che muta una condizione accessoria e temporanea (l'essere migranti) ad una situazione culturale loro (il popolo migrante), senza individuare una altro aspetto culturale partorito da noi (un popolo sfollato e cacciato, quindi PER FORZA migrante).
Altro sconcerto (ma ormai dovrei saperlo): l'articolo è ospitato dalla rivista ArcipelagoMilano: da quattro anni ospita un meritorio dibattito che riunisce i resti del riformismo milanese, che in passato ha giocato un ruolo fondamentale nella storia politica cittadina. E "politicamente" sono preoccupato che anche qui passi il discorso di bisogni abitativi differenti "a prescindere" (attenzione: il differenzialismo si applica inizialmente ad una minoranza, per allargarsi in seguito alle altre fasce deboli di popolazione).
Superati questi due scogli iniziali, mi sono impegnato a leggere il resto dell'articolo, nella speranza di correggere il mio giudizio di partenza. Alla fine mi è rimasto un senso di delusione: ben scritto e documentato (impreziosito da citazioni di Heidegger, oltre che degli imprescindibili Marc Augè e dell'Housing Sociale che in questi casi non mancano mai), ma quello che ad una prima lettura si presenta come un viale elegante, si chiude come un vicolo senza uscita.
Nella mia ignoranza, riparto dalla seconda frase che ho citato all'inizio: "ora osserviamo che a questo bisogno fondamentale si risponde nei modi più disparati." E dall'articolo di Maurizio Spada vorrei estrapolare un capitolo:
    In questa situazione si ritiene che a qualcuno interessi che le case siano costruite a regola d'arte seguendo principi di sostenibilità energetica e sociale? Un po' diverso è stato l'operare del mondo cooperativo, almeno nella prima metà del secolo scorso, infatti sono di quegli anni progetti di città giardino e d'interventi edificatori che prevedevano la proprietà indivisa, prezzi d'affitto calmierati congiuntamente a una vita di relazione diversa e una filosofia che voleva alcuni servizi in comune e molta solidarietà, come ad esempio i quartieri della Società Umanitaria dei primi del '900. Purtroppo nel secondo dopoguerra la cooperazione, che intanto sceglie la proprietà divisa seguendo le mode, finisce per operare come le immobiliari: anche se all'inizio si costruisce per i soci che le abitano, dopo qualche anno le case possono essere vendute entrando così nel libero mercato e generando notevoli affari.
Una città, grande o piccola che sia, agisce e cresce essenzialmente su due logiche contrapposte:
  • da una lato la spinta razionalista e macroeconomica, per cui una determinata soluzione abitativa viene ripetuta come una formina da spiaggia;
  • dall'altra una spinta più anarchica e microeconomica, per cui i diversi strati della popolazione che la abitano, si differenziano in base a storie, bisogni, localizzazione, ecc. e queste differenze si riflettono nell'abitare.
Vediamo quindi se partendo dai "Rom [che] tutti gli altri hanno bisogno di una casa" si riesce a giungere ai "modi più disparati." Attenzione però, il mio non sarà una specie di esercizio filosofico, ma vorrei ragionare su un concetto che partendo dai Rom (e dai Sinti, e dai Caminanti) potesse essere utile in una discussione meno settoriale: LA CITTA' PER TUTTI (sapendo comunque che il PER TUTTI è già di per sé un'espressione che appartiene all'utopia). Lo spunto è dato dal PROGETTO ROM, SINTI E CAMINANTI 2012-2015 che proprio in questi giorni dovrebbe essere discusso in comune, per essere presentato in giunta a fine mese. Un aspetto non secondario è che il progetto iniziale dovrebbe contenere tutta una serie di osservazioni, maturate dal confronto con associazioni, consigli di zona, i rom stessi; e da questo punto di vista si tratterebbe di una novità importante. Sarebbe utile se in questa discussione rientrassero le proposte fatte due anni e mezzo fa dal Tavolo Rom, riguardo l'abitare nell'area metropolitana di Milano.
Proposte "le più disparate", ma che presuppongono un processo, partecipato e condiviso, che superi la situazione attuale dove "popoli migranti" ed abitaresono destinati a non incontrarsi mai, sancendo una situazione abitativa differenziale e da terzo mondo. Con un rischio che riguarda tutti: le condizioni socio sanitarie di un qualsiasi insediamento spontaneo lasciato a se stesso, non si fermano ai limiti del campo, ma tracimano. Le malattie sono per loro natura antirazziste, colpiscono tanto Rom che i loro vicini, il degrado umano ed urbano di un campo abbandonato ricade su tutta la zona circostante. Quindi la questione del superamento dei campi ATTUALI, non riguarda solo l'1‰ della popolazione, ma va affrontata nello spirito del riformismo milanese degli anni '60, quando menti e risorse furono impiegate per risolvere l'emergenza sociale e abitativa dei tanti immigrati che arrivavano dal sud Italia.
Mi limito ad alcuni punti del documento del Tavolo Rom:
  • Non da ora, ma almeno da una ventina d'anni, ci sono Rom e Sinti che le case le abitano (o le occupano). In alcuni casi, senza grossi problemi (e quindi noi smettiamo di considerarli Rom e Sinti, come se la normalità non fosse una notizia), in altri casi le situazioni sono più conflittuali. Vuoi perché funziona nei fatti una sorta di integrazione all'incontrario, per cui le devianze sociali maturate in un campo rom si saldano con le tipiche devianze da ghetto urbano, sia perché la destinazione d'arrivo si trasforma da campo orizzontale a verticale, replicandone tratti positivi e negativi. Ma il fenomeno dell'urbanizzazione riguarda, in misura diversa, tutti i gruppi presenti in città.
  • Un problema legato al passaggio da una stanzialità non riconosciuta (campo sosta) ad una ufficiale (casa), è la sostenibilità. Lavoro, in parole povere. Non si può parlare di percorso verso l'autonomia, quando le famiglie rom e sinte che scelgono di andare ad abitare una casa, non ne hanno i mezzi; ricadranno nella dipendenza dalle mafie locali, piuttosto che dalla chiesa, dal volontario o dall'associazione di turno. O nella mentalità del ghetto, cioè ricercare le risorse necessarie all'interno del proprio clan, senza interazione col mondo circostante. Se di lavoro si tratta (ma preferirei usare il termine SOSTENIBILITA'), pur in una situazione di grave crisi ci sono da anni fette di popolazione rom e sinta che hanno trovato lavoro, come dipendenti o lavoratori autonomi, persino imprenditori, e altri si sono riuniti in cooperative. Il documento propone quindi la creazione di un'AGENZIA, con compiti di supporto e consulenza, che veda la presenza di soggetti istituzionali, sindacali e di categoria. Ma, contemporaneamente, una simile agenzia dovrebbe farsi carico del problema più propriamente sociale: queste comunità soffrono di un rapporto altamente conflittuale col resto della popolazione, e questo conflitto va mediato e governato per evitare "crisi di rigetto". Potrà sembrare l'ennesimo ente DIFFERENZIALISTA, in realtà dipende dai soggetti locali che si riusciranno a coinvolgere: perché una simile unione e confronto di forze diverse, si trasformi in un laboratorio di mediazione sociale diffusa, nell'INTERESSE GENERALE.
  • Alcuni Rom e Sinti (anche qua, dei gruppi più diversi) sono disposti a trasferirsi in cascina, potendo mantenere lì uno stile di vita familistico, più vicino alle loro tradizioni. Attenzione: alcune hanno aperto un mutuo da anni, eppure sono ancora "parcheggiate" in un campo. Ma il discorso, COMUNE anche stavolta, che si pone è: se non ci fossero queste famiglie, questo capitale edile di cascine abbandonate, che fine farebbe? E' una questione da affrontare CON URGENZA anche a livello cittadino, dato che sempre di più si parla di città metropolitana, che supera grandemente i confini cittadini.
  • La città metropolitana, e la generale scarsa attenzione che viene riservata alla città fuori dalla cerchia dei Navigli, ci porta in quel terreno esteso ed indefinito della periferia metropolitana. Proprio lì dove si ammassano i campi rom, comunali e spontanei. Se di superamento vogliamo parlare, ho in mente un esperimento che da poco è nato nel campo comunale di via Idro: le stesse strutture vengono utilizzate per il resto della cittadinanza e lì periodicamente si svolgono proiezioni di film, presentazioni di libri, riunioni e feste aperte alla cittadinanza. Il campo si trova all'inizio del neonato Parco della Media Valle del Lambro, ed è sede una cooperativa di operatori del verde, un insediamento lì sarebbe del tutto conseguente. Se aggiungiamo che l'insediamento è in gran parte autocostruito, che le famiglie condividono le loro piazzole con ogni tipo di animale da cortile e fattoria (allevato secondo le norme di legge), quel piccolo insediamento può essere realmente una risorsa per la zona, per le scuole, per gli urbanisti.
Diverse soluzioni, che comprendono vari aspetti, tutti problematici, dell'abitare una metropoli complessa e stratificata come Milano. Non intendo restringerle, ripeto, alla sola questione rom, sto cercando di capire come sia possibile ragionare assieme, e vedere come questa presenza può tramutarsi in ricchezza per Milano, o dagli errori politici passati ricavarne buone pratiche future.
Mi viene un dubbio: esiste una logica che lega tutto quanto ho scritto sinora? Forse sì. Partendo da un gruppo tra i più disagiati e discriminati (in città, come altrove), che addirittura "di una casa non avrebbe bisogno", da milanese ho provato ad allargare il discorso a tutta la comunità che qui vive ed interagisce, provando a spostare l'equilibrio dello status quo. Credo che si chiami... forse POLITICA?
Riferimenti:

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